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L’assalto a Mosca è fallito
di Carlo Bertani – 16 agosto 2006
www.disinformazione.it

Molti commentatori hanno richiamato le similitudini esistenti fra le campagne di Russia – napoleonica e dell’Asse – con l’assalto al Libano: se il paragone regge, dobbiamo riconoscere che Mosca non è stata conquistata e che l’esercito israeliano dovrà ritirarsi dal Libano, scornato e depresso.
In realtà, il vero “assalto a Mosca” non c’è stato poiché l’obiettivo primario della guerra era lo scontro aperto con la Siria , la caduta del regime di Assad e l’aggiunta di un nuovo “tassello” nel Risiko che Pupazzetto Bush tiene aperto sulla scrivania dello Studio Ovale. Papà glielo ha appena regalato, e Giorgetto ha addirittura imparato a riconoscere l’Iraq, l’Italia e la Nuova Zelanda nel planisfero: mamma Barbara è così contenta dei progressi del pargolo che gli farà trovare un bel pony e due pistole a tappi “Pecos Bill” nel ranch di Crawford.

Senza lo scontro con la Siria , però, tutta l’operazione israeliana perde completamente significato: il porto di Tartus continua ad essere il terminal dell’oleodotto che parte dall’Iraq, gli accordi con la Turchia per nuovi oleodotti e per sottrarre acqua alle sorgenti del Tigri per portarla in Israele non ne risultano certo facilitati e, ciliegina sulla torta, a novembre Bush dovrà rispondere di fronte all’elettorato americano di questa nuova e sensazionale “vittoria” della diplomazia statunitense in Medio Oriente. Anche il Libano sono riusciti a giocarsi: è proprio vero che anche le formiche, nel loro piccolo, s’incazzano.

Pur ammettendo che si tratta soltanto di una battaglia – e che la “guerra infinita” di Bush e di Israele continua – si tratta di una battaglia persa, e di una battaglia importante, potremmo quasi azzardare “decisiva”.
Tutti gli scenari trionfalistici/catastrofici (secondo il punto di vista) di poche settimane fa sono stati diametralmente ribaltati: un Libano parzialmente occupato, Hezbollah distrutto, Israele che mostra ancora una volta il suo strapotere nell’area e Beirut prostrata di fronte alla Banca Mondiale di Wolfowitz per la ricostruzione sono oramai soltanto sogni, che in poche settimane si sono trasformati in incubi per Bush ed Olmert.

Il “Nuovo Medio Oriente” vagheggiato dai neocon e dai sionisti si sta rivelando un boomerang: da questa guerra uscirà certamente un nuovo Medio Oriente, ma sarà proprio l’opposto rispetto a quello che prevedevano Washington e Tel Aviv. E, attenzione: non sarà solo il Vicino Oriente a manifestare i segni della sconfitta israeliana, bensì sarà tutto il pianeta ad osservarne i frutti. Come si è giunti a tanto?
Come scrissi il 24/7/2006 ne Il mazzo delle carte truccato, la strategia israeliana è stata veramente sciagurata: non solo ha provocato più di mille vittime civili libanesi, ma con la distruzione delle infrastrutture del Libano hanno ottenuto soltanto di perdere molti appoggi internazionali, soprattutto in Europa.

Il tributo di sangue pagato da Israele è stato alto – circa 250 morti e 3.000 feriti – e, se operiamo una proporzione fra le due popolazioni, sarebbe come se in Italia avessimo avuto in un mese di guerra 2.500 morti e 30.000 feriti.
In compenso, Hezbollah non è stato di fatto indebolito ed allo scoccare della tregua può mostrare di fronte al mondo che – per la prima volta – una forza armata musulmana ha fermato Tzahal, il più potente esercito dell’area.

Il quotidiano israeliano Haretz[1] – all’approvazione della risoluzione ONU per la cessazione delle ostilità – sottolineava che il danno più grave provocato da Olmert ad Israele era l’essersi spogliati “del potere di deterrenza”, che tradotto in termini più semplici significa aver perso l’alone d’invincibilità che circondava Israele sin dal 1948.
L’uso smodato dell’aviazione strategica e la grave sottovalutazione delle capacità militari di Hezbollah – che invece avrebbero dovuto condurre ad un uso tattico dell’aviazione, ossia al bombardamento delle posizioni dei guerriglieri sciiti solo a sud del fiume Litani o poco oltre – hanno prodotto la frittata: nessun significativo risultato raggiunto sul piano militare e pessime relazioni diplomatiche con molti paesi prima, almeno, “equidistanti”.

L’opinione pubblica europea è stata scossa dalle immagini di morte che Israele ha seminato nel Libano, e non basteranno di certo i richiami retorici alla Shoà per rimediare al danno.
Israele, però, in questo frangente è stato tradito: da chi?
Per comprendere la natura del tradimento dobbiamo osservare con maggior attenzione ciò che è avvenuto all’ONU più che sul campo di battaglia.
Nei giorni precedenti la risoluzione definitiva, la Russia s’era opposta alla prima risoluzione – che avrebbe avallato l’occupazione israeliana del sud del Libano – affermando che era pronta ad usare il diritto di veto in Consiglio di Sicurezza. La prima bozza della risoluzione fu accantonata.

La Russia – con il silente accordo della Francia – comunicò che avrebbe presentato una sua risoluzione, nella quale chiedeva semplicemente una tregua umanitaria di 72 ore: una risoluzione alla quale per tutti sarebbe stato difficile opporsi, visto il gran numero di vittime e le gravi condizioni nelle quali versava la popolazione libanese.
Tre giorni di tregua, però, avrebbero consentito ad Hezbollah di ricevere rifornimenti: questa era la “polpetta avvelenata” presente nella proposta russa.
A quel punto, la diplomazia USA si trovò di fronte ad un terribile dilemma: seguire l’isolamento internazionale d’Israele fino in fondo – ponendo il veto sulle risoluzione “umanitaria” della Russia – oppure accettare la fine delle ostilità ed il ritiro israeliano?

Optando per la seconda scelta, Washington ha tolto la “terra da sotto i piedi” ad Olmert – sancendo probabilmente la sua fine politica – ma è riuscita a salvare un minimo di credibilità internazionale: d’altro canto, se Tzahal non era riuscito in un mese a venire a capo di Hezbollah, c’erano poche speranze che ci riuscisse in tempi ragionevoli. In definitiva, la Rice è riuscita ad avere la meglio sul Pentagono, cosa che mai riuscì a Powell.
C’è una curiosa nemesi in tutta la vicenda: più volte i vertici militari israeliani criticarono gli USA per essere “troppo teneri” (sic!) in Iraq; Israele sosteneva che solo con il “pugno di ferro” (come nei territori…) sarebbe stato possibile sconfiggere la guerriglia irachena.

La fin troppo facile “guerra” – in realtà uno sterminio a senso unico – che Israele porta avanti da anni nei territori, ha fatto smarrire ai generali israeliani la memoria di una vera guerra, contro un nemico che dispone di armi per difendersi. Ora, a Washington come a Tel Aviv, avranno molto materiale da analizzare.
Da ultimo, dovremmo chiederci il perché di tanta veemenza da parte russa.
Sappiamo che la Russia contrasta le velleità di conquista anglo-americane (ed israeliane) nell’area ed in Asia Centrale, ma mai s’era opposta in modo così fermo. La ragione? Il 21 agosto 2006, Mosca pagherà gli ultimi spiccioli del debito ricevuto in eredità dall’URSS, dopodichè sarà un libero fringuello, affrancato da qualsiasi vincolo economico con l’Occidente.

I passi successivi? Putin lo ha già dichiarato: la quotazione del rublo sui mercati valutari e – in prospettiva – il pagamento dell’energia in valuta russa, il che sarebbe un altro colpo per il dollaro.
La prima vittima di questa assurda vicenda sarà proprio Israele, che dovrà rivedere la sua politica estera ed anche i suoi equilibri interni.
Da troppo tempo il dibattito politico in Israele è congelato e, se Olmert ha sicuramente delle gravi responsabilità, colui che con il suo silenzio assassino ha “coperto” la presidenza di Olmert è stato Shimon Peres: la profonda viltà del suo mutismo è stata il suggello dell’avventura libanese.
Non dobbiamo dimenticare che Shimon Peres – premio Nobel per la Pace (!) – è stato il principale becchino del dibattito politico interno a Tel Aviv: senza la sua acquiescenza, non ci sarebbe stata la “grande ammucchiata” di Kadima, un non-sense politico per un paese che si dice democratico, una coalizione che ha tradito l’elettorato israeliano facendo credere che bastasse la forza per dirimere qualsiasi dissidio con gli arabi.

Shimon Peres fu colui che strinse la mano di Arafat sul prato della Casa Bianca, insieme all’assassinato Rabin, ed oggi non può giocare il ruolo della verginella, poiché i governi retti da Sharon hanno delegittimato per anni l’ANP, aprendo le porte dei territori ad Hamas.
Oggi, Israele raccoglie i frutti di questa politica dissennata e mette nei guai non solo i suoi cittadini, ma anche gli stati arabi che gli avevano accordato consenso – Egitto e Giordania in primis – che si troveranno a fronteggiare un’opposizione interna sempre più agguerrita. Se si riflette che in Egitto è in vigore da anni la legge marziale, e che ci sono 20.000 oppositori politici nelle galere di Mubarak, si può facilmente immaginare la difficoltà che avrà il vecchio Faraone a tenere le redini dell’Egitto, il paese che più rischia una deriva fondamentalista. Il piccolo re giordano avrà anch’egli le sue gatte da pelare, così come gli orgogliosi wahabiti sauditi.

L’unica salvezza per Israele è una vigorosa sterzata, un fremito di consapevolezza che riapra il dibattito politico interno, che lasci intravedere nuovamente la possibilità di un accordo con gli arabi per la Palestina. Se , da domani, Tzahal si sposterà dal Libano a Gaza e ricomincerà a massacrare i palestinesi, chi terrà più a bada le popolazioni arabe? E le relazioni con l’Europa – già molto “fredde” – come evolveranno? Bisogna considerare che la forza d’interposizione in Libano sarà quasi completamente europea e composta prevalentemente dai paesi che più hanno condannato la condotta assassina della guerra, con l’uso di armi proibite (bombe cluster, aggressivi chimici, ecc.). Sarà una facile “convivenza” quella fra le forze ONU, Hezbollah che canta vittoria e Tzahal che mastica amaro?

Sull’altro versante, la novità e senz’altro l’affermazione di Hezbollah come movimento politico e struttura militare: che mai aveva tenuto testa per un mese a Tzahal?
Il premier Siniora potrà salvare il suo governo – che doveva essere l’espressione delle forze moderate libanesi – soltanto se farà accordi con Hezbollah, che esce da tutta la vicenda come l’indiscusso vincitore.
La risoluzione 1559 – che prevede il disarmo del Partito di Dio – non potrà essere ovviamente applicata: probabilmente si giungerà ad un compromesso che prevedrà l’accorpamento delle milizie sciite nell’esercito libanese, oppure una doppia struttura – come in Iran – ossia l’Esercito Regolare ed una sorta di milizia popolare (come le “Guardie della Rivoluzione” iraniane, che hanno forze di terra, mare e cielo). Vagheggiare un pacifico disarmo di Hezbollah, quando agli occhi dei libanesi è stato il salvatore della nazione, è difficile da immaginare: chi sono gli autori di questo “miracolo”? Olmert & soci.

Anche il destino delle forze “moderate” libanesi è assai incerto: l’evidenza dei fatti ha mostrato che Israele non distingue fra le differenti posizioni politiche dei paesi arabi (Egitto e Giordania sono avvertiti), bensì agisce oramai solo su basi razziali.
Dall’altra, colei che doveva giocare il ruolo del “cattivo” – ossia la Siria – ha mostrato invece moderazione e non è caduta nella provocazione israeliana, che è giunto a bombardare i valichi di frontiera. Inoltre, centinaia di migliaia di libanesi hanno trovato rifugio e protezione proprio in Siria, e di questa ospitalità qualsiasi futuro governo libanese dovrà tener conto.

La distruzione delle infrastrutture libanesi è valutata in alcuni miliardi di euro (3-5) e questa era la seconda parte del piano ordito da Israele e dagli USA: lì sarebbe dovuto entrare in gioco Wolfowitz con la Banca Mondiale , per taglieggiare i libanesi con i suoi prestiti. Dopo le aquile, gli avvoltoi.
Invece, il successo di Hezbollah ha scompaginato le carte proprio nella galassia musulmana: chi non ha saputo difendere il Libano (leggi: Egitto, Giordania ed Arabia Saudita) dovrà pagarne le conseguenze politiche. Difatti, Ryad ha già versato 1,5 miliardi di dollari nelle casse libanesi: se non lo faranno loro ci penserà l’Iran, poiché il Libano è oramai sfuggito completamente al controllo da parte dell’Occidente.

Cosa nascerà dalle disastrate periferie di Beirut e dalla “terra bruciata” del sud? Una linda generazione d’eleganti rappresentanti diplomatici od una nuova schiera di guerriglieri?
Anche in Europa il mazzo è stato tagliato e si tornano a distribuire le carte, e chi credeva d’avere degli assi oggi si ritrova con una panoplia di scartine.
Il ritorno prepotente della Francia nello scenario medio-orientale – Parigi avrà il comando della forza d’interposizione ONU – è una sconfitta per inglesi ed americani, ma soprattutto per i britannici.
La sfida per il controllo del Vicino Oriente fra la Gran Bretagna e la Francia ha radici antiche: con il Trattato di Sèvres (1920) fu sancito il predominio inglese sull’Iraq e sulla penisola arabica (eccettuato l’Higiaz) e quello francese sulla Siria e sul Libano.

La Francia – da sola – non avrebbe avuto la forza per imporre una risoluzione così sfavorevole ad Israele, soprattutto dopo che la Germania s’era defilata con una posizione assai ambigua. Ci penseranno il prossimo inverno, ed il metano russo, a far riflettere la signora Merkel.
L’intransigenza russa ha aperto alla Francia uno spiraglio insperato, che ha saputo sfruttare abilmente; non sono novità, bensì dei “classici” negli equilibri europei: ad un “raffreddamento” dell’asse Parigi-Berlino corrisponde un rafforzamento di quello con Mosca, con la quale Parigi collabora da anni in importanti programmi militari e spaziali. Spagna ed Italia, ovviamente, seguono: i nostri soldati potranno così passare direttamente dalle dipendenze di un generale del British Army di Bassora a quelle di uno dell’Armée di Beirut.

Gli “sgambetti” fra inglesi e francesi nell’area non si contano: pochi sapranno che – durante la rivolta anti-inglese del 1941 in Iraq – il governatore francese della Siria (fedele a Vichy) concesse l’uso delle ferrovie siriane all’Asse per il trasporto d’armi e munizioni, e non solo: caccia Messerschmitt Bf-110 e FIAT-CR42 operarono per un breve periodo dalla base di Mossul contro le truppe anglo-indiane che salivano dal Kuwait verso nord e la vittoriosa (per i britannici) battaglia decisiva si svolse – corsi e ricorsi storici –  a Falluja.
Le “ruggini” fra inglesi e francesi – nonostante i sorrisi di convenienza – sono continuati in un susseguirsi d’accordi tattici (Suez, 1956) e di scontri abilmente celati (Kossovo 1999, per il controllo delle miniere di Trepca).

Oggi, truppe francesi saranno schierate al confine israeliano – ufficialmente per la protezione di Tel Aviv – ma in passato Israele non aveva mai gradito truppe europee ai suoi confini e, meno che mai, nei territori: si tratta di un boccone assai amaro quello che Israele deve ingoiare, anche perché sa benissimo che a 20 chilometri dalle sue frontiere Hezbollah sarà ancora più forte.
L’altro grande sconfitto della guerra in Libano è Al-Qaeda, il terrorismo di matrice wahabita e salafita. Durante la guerra l’oramai indiscusso capo di Al-Qaeda – Ayman Al-Zawahiri – si fece vivo soltanto un paio di volte per lanciare una prima volta degli imbelli strali contro gli occidentali e la seconda per comunicare che un gruppo terrorista egiziano – Jamaa Islamiya – aveva accettato l’affiliazione con il network internazionale del terrore. Entrambe le notizie, nel clamore della guerra, si sono perse come una brezza dentro ad un uragano.

La difficoltà di reggere il confronto con gli sciiti di Hezbollah è apparsa evidente, ed oggi Al-Qaeda si trova alle corde: non tanto nei confronti dei nemici occidentali, ma in quanto scalzata – nell’immaginario di milioni di musulmani – dalla maggior organizzazione dei gruppi sciiti. La paura di perdere consensi è stata così vasta da far pronunciare agli imam wahabiti l’invito a non pregare per la vittoria di Hezbollah: un grave errore politico, che non farà altro che spostare nuovi consensi verso gli sciiti.
Almeno teoricamente, Al-Qaeda avrebbe organizzato lo spaventoso attentato che doveva ripetere un nuovo 11 settembre sui cieli di Londra, ma da come sono andate le cose non sembra averne tratto gran vantaggio.

Il dubbio che serpeggia in Occidente – inutile negarlo – è capire se si sia trattato di un vero attentato o di una semplice montatura mediatica: in entrambi i casi Al-Qaeda ne esce sconfitta.
Nel caso si sia trattato di un vero attentato, bisogna riconoscere che nemmeno il più squinternato gruppo terrorista della galassia avrebbe agito in quel modo. Sarebbero saliti su aerei di compagnie americane (sui quali volano sempre agenti in borghese) e quindi avrebbero mescolato i due reagenti per fabbricare l’esplosivo – un attimo, prego, mi regga la boccetta…ecco, così…grazie – poi avrebbero dovuto inserire il detonatore – me lo tiene un secondo? Stia attento, però, può scoppiare… – ed infine con un telefonino avrebbero fatto esplodere l’intruglio: Hassan, qual è il numero da chiamare? Hai messo 10 euro nella scheda come ti avevo raccomandato?

Anche il “via” per l’attentato – giunto con una telefonata (!) dal Pakistan – lascia alquanto perplessi: nemmeno il povero Bruno – l’orso assassinato dai lanzichenecchi – avrebbe commesso un simile errore telefonando al direttore del parco d’Abruzzo. Ahò: sarò Bruno, sarò orso, ma mica ‘so scemo!
Tutte le comunicazioni avvengono oramai via e-mail, con l’uso di codici cifrati (il conosciuto Havala) e sono spesso preceduti da sciami di virus e di strano spam per mettere a dura prova i sistemi di sorveglianza elettronica e satellitare.
Se invece si è trattato di una semplice montatura mediatica, vuol dire che Al-Qaeda non è più in grado di colpire in Occidente, e questo proprio perché ha finito per ricalcare nelle forme e nella prassi i metodi occidentali, più facilmente intercettabili dai servizi di sicurezza.

Non vale nemmeno la pena di perdere troppo tempo per stabilire se si sia trattato di un vero attentato o di una montatura: il risultato è comunque la sconfitta di Al-Qaeda, del terrorismo solitario e suicida, raffrontato alle milizie organizzate di Hezbollah – che non pratica attentati suicidi – bensì la condotta della guerra con i metodi della guerriglia, da Cuba al Vietnam, dall’Iraq al Libano.
Per tentare di salvare la frittata, qualcuno (leggi: Marco Pannella) chiede oggi l’ingresso di Israele nell’UE: subito alcune forze politiche italiane di centro-destra (FI – AN) si sono accodate, a dimostrare quanto siano oramai sciagurati gli equilibri interni italiani, con Pannella (Rosa nel Pugno – maggioranza) che è in sintonia con l’ala estrema dell’opposizione e l’UDC (opposizione) che tace sperando che consegnino loro la chiave d’ingresso nel centro sinistra.

Chi fa simili proposte non conosce nemmeno l’ABC della costruzione europea, come se l’ingresso nell’UE fosse come entrare in un cinema: pago il biglietto, entro e ci rimango fino all’ora di chiusura.
Per entrare in Europa bisogna aver prima risolto tutti i contenziosi sui confini, mantenere ad un livello accettabile i conflitti interni con le minoranze etniche e corrispondere alle stesse il pieno diritto di proprietà. Israele non ha nemmeno iniziato a prendere in considerazione quei problemi: ci pensa l’esercito.

Ricordiamo che per entrare nell’UE la Turchia dovrà risolvere l’annoso problema con i curdi, mentre durante la recente guerra – silenziosamente – ha spostato truppe sul confine iracheno per poter eventualmente colpire i “santuari” della guerriglia curda nel nord dell’Iraq. A margine, possiamo notare quanto sia irta di spine anche la via che dovrebbe condurre ad una separazione in tre parti dell’Iraq (sciiti, sunniti e curdi), laddove gli sciiti diverrebbero una “succursale” dell’Iran, i sunniti della Siria ed i curdi finirebbero massacrati dai turchi.

Lo stesso problema – forse ancor più complesso – riguarda gli stati ex jugoslavi: la Croazia non entrerà nell’UE fino a quando non risolverà i problemi derivanti dal riconoscimento delle proprietà immobiliari. Non si tratta soltanto dei beni confiscati agli italiani dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma anche di quelli dei serbi e dei musulmani che sono stati scacciati con la pulizia etnica nello scorso decennio. Simili problemi coinvolgono la Serbia e la Bosnia , mentre fu rifiutata la procedura d’ammissione del Cile – anni or sono – quando il paese latino-americano aveva tutte le carte in regola, compresi i parametri di bilancio, per associarsi all’Unione.

Israele non rispetta le risoluzioni ONU, è ancora ufficialmente in guerra con la Siria , confiscò le proprietà dei palestinesi senza alcun risarcimento, non ha confini definiti ed ha contenziosi aperti sugli stessi: inoltre, dulcis in fundo, dovrebbe dimostrare d’avere un bilancio statale che rientra nei parametri di Maastricht cosa che – con i costi della recente guerra[2] – risulta assai dubbia.
Il tentativo (nemmeno troppo ben celato) che sottende questa richiesta è – ancora una volta – quello di coinvolgere l’Europa nella dissennata politica dell’amministrazione USA e di Israele, ossia che si trovi “qualcuno” così stupido da fare la guerra agli arabi al posto degli israeliani. Accà nissciun’ è fess’.

La discriminante fra le due posizioni passa proprio attraverso le cosiddette “regole d’ingaggio” che riceveranno i nostri militari: si tratta, sostanzialmente, di definire a chi potranno sparare addosso ed a chi no.
I desideri di Israele – visto che Hezbollah, a loro dire, è un’organizzazione terroristica – sarebbero quelli di sparare su Hezbollah e di collaborare con Israele, che a sua volta quando le forze ONU non sono troppo “accondiscendenti” le bombarda direttamente.

I libanesi sono, ovviamente, d’opposto parere.
La sintesi potrebbe essere trovata nel significato essenziale di “forza di pace”, ossia di semplice forza d’interposizione che non ha compiti d’aggressione contro chicchessia, a meno d’essere attaccata: insomma, né più né meno le regole d’ingaggio che i nostri soldati hanno in Bosnia. Inoltre, non si potrà passare oltre alla drammatica situazione dei territori, laddove Israele pratica il massacro come prassi: una soluzione della crisi deve coinvolgere anche i palestinesi.

Se, invece, passerà in Parlamento qualcosa di diverso – modello Iraq od Afghanistan – i nostri soldati saranno esposti a dei rischi che la comunità nazionale non richiede, giacché nessun soldato italiano ha il dovere di difendere la Patria in armi quando la guerra è una guerra d’altri nella quale l’Italia non c’entra nulla.
Per non sbarcare altre bare a Ciampino, occorre che nel paese ci sia la consapevolezza che le regole d’ingaggio sono la base della futura missione: anche il povero Bruno passò fiducioso la frontiera tedesca, ma era ignaro delle “regole d’ingaggio” dei lanzichenecchi.

Carlo Bertani bertani137@libero.it  www.carlobertani.it

[1] Ari Shavit, Olmert deve andarsene, 12/8/2006
[2] Nel 2005, il rapporto deficit/PIL israeliano fu del 2%, ma i costi della recente guerra (valutati fra 1 e 2 miliardi di dollari) sposterebbero il valore ben oltre il 3%.

 
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