|
L’ultima
beccata dell’anatra zoppa
di Carlo Bertani – 7 gennaio 2007
“Serbisi
questo violento rimedio al caso estremo”
Pietro
Metastasio (Pietro Trapassi) – Attilio
Regolo – Atto Primo Scena I
Su
George Walker Bush c’è sempre qualcosa da raccontare, anche
quando sembra oramai alle corde e privo di qualsiasi via d’uscita che
non sia una resa, più o meno onorevole.
L’unica via che gli analisti internazionali davano per scontata per
uscire dal pantano iracheno – dopo l’affermazione dei Democratici al
Congresso ed al Senato – era quella di un accordo bipartizan
per andarsene da Baghdad: cosa del tutto ovvia e ragionevole, se mai ci
fosse ancora qualcosa di “ragionevole” nella politica statunitense.
Quali potevano essere i termini dell’accordo? Un accordo bipartizan deve soddisfare la gran maggioranza d’entrambe le
parti: non può essere una via d’uscita che salva soltanto il sederino
a quattro politici di prima grandezza, bensì deve essere una soluzione
che in futuro si potrà giocare nella campagna elettorale per
Ci
sarà un “nuovo” Presidente? Anche questo è un aspetto da sondare,
ma andiamo avanti un passo dopo l’altro.
Strombazzato
ai quattro venti subito dopo le elezioni di novembre, l’accordo bipartizan
sembrava inevitabile: il pensionamento di Rumsfeld e Bolton
pareva quasi un sigillo sulla pergamena, ma a George Bush rimangono
ancora due anni, due lunghi anni da vivere sulla “graticola” che i
Democratici gli prepareranno senz’altro – bocciandogli le leggi di
spesa – due anni nei quali i democratici avranno tutto l’interesse a
presentare un Presidente già sconfitto dagli eventi, per poi celebrare
le elezioni di novembre 2008 come una semplice routine.
Tutto questo può andar bene in casa democratica: e in quella
repubblicana?
In casa repubblicana l’unica possibilità di spianare un poco la
strada al futuro candidato – sia esso Giuliani, Mc Cain od
un altro – è quello di una “onorevole” uscita dall’Iraq, il che
è quasi come immaginare che giungano gli alieni a sistemare magicamente
la situazione.
Da
oggi ad un anno, due o tre non ci sono ragionevoli prospettive che la
situazione irachena cambi: anche inviando 20-40.000 nuovi effettivi in
Iraq (a patto di riuscire a trovarli) la situazione non cambierà poiché
ogni anno l’Iraq “ingoia” mille e più morti, 100 miliardi di
dollari e, soprattutto, decine di migliaia di feriti e mutilati.
Quest’ultimo è proprio l’aspetto più pericoloso per Bush: i feriti
ed i mutilati che la gente osserva con i propri occhi – in stridente
contrasto con la censura dei media di regime – e che già in Vietnam
furono coloro che catalizzarono il crollo del cosiddetto “fronte
interno”.
Con
l’esecuzione di Saddam Hussein la fazione sciita ha conseguito
un ulteriore punto nei confronti di quella sunnita: non dimentichiamo,
però, che rafforzare troppo gli sciiti – a lungo andare – potrebbe
rivelarsi un’arma a doppio taglio; tutti possono facilmente
comprendere che gli sciiti iracheni sono legati a Teheran a doppio filo.
In qualche modo, si può già oggi affermare che Teheran governa
l’Iraq.
Come uscirne?
Va
detto che una soluzione ragionevole non esiste, ma George Bush ci ha
abituati oramai alle soluzioni più irragionevoli che possiamo
immaginare: mercoledì 10 gennaio 2007 il Presidente parlerà alla
nazione – ufficialmente per spiegare la exit
strategy dall’Iraq – ma temo che ci sarà dell’altro.
Anticipandolo di quasi una settimana, i nuovi leader democratici del
Congresso e del Senato gli hanno mandato a dire – a stretto giro di
posta – che una strategia di uscita dall’Iraq deve prevedere la
partenza delle truppe americane nell’arco dei prossimi 4-6 mesi.
Cosa rimarrebbe da fare a Bush per il rimanente anno e mezzo della sua
presidenza? Fare l’anatra zoppa e muta per i democratici che,
comodamente seduti, potrebbero dedicarsi al tiro al bersaglio contro il
Presidente repubblicano per 18 mesi. Per Bush questo è il peggior
affare, da evitare in qualsiasi modo.
Il
termine di 4-6 mesi è però perentorio; anche i democratici americani
hanno oramai superato una soglia: l’Iraq è un affare che “puzza di
morto” ed è garantito che chi ci rimane aggrappato finisce per farsi
trascinare a fondo. Non ci potranno essere accordi bipartizan
che salvino capra e cavoli, perché la capra dell’uno significa la
scomparsa dei cavoli dell’altro e viceversa: nessun accordo nel nome
“dell’interesse superiore della nazione”, perché anche gli
interessi nazionali dei democratici e dei repubblicani, oramai,
collidono.
L’ossessione petrolifera di Bush (ed il suo apocalittico conflitto
d’interessi) si scontra con nuove esigenze: la salvezza del dollaro, i
rapporti con
Prima
di questo fatidico mercoledì, Bush ha compiuto due mosse che
insospettiscono, e parecchio.
Per prima cosa ha sostituito i capi delle forze armate: sparisce la
generazione dei generali “del Vietnam” (Abizaid, Casey,
ecc) e ci sono delle “new entry”. I nuovi venuti – proprio per
l’occasione che loro si presenta – saranno più proni ai desideri
della Casa Bianca che – oltretutto – li ha scelti fra coloro che
hanno fama di “duri”. Brutto inizio.
La seconda decisione è invece ancora più preoccupante: una portaerei a
propulsione nucleare della classe “Eisenhower” ha fatto il suo
ingresso nel Golfo Persico alla testa di una task force.
La
presenza di una simile unità nelle acque del Golfo non ha nessun legame
con l’Iraq, ma può averne uno solo: l’Iran. Già, e come?
Premetto d’aver scritto più volte che non credevo in un attacco
all’Iran: troppo pericoloso per gli USA visto come andavano le cose in
Iraq, ma a quel tempo Bush aveva il completo controllo della politica
interna. Ricordiamo che la sconfitta in Vietnam avvenne più
all’interno degli USA che nelle risaie dell’Indocina: a crollare fu
il “fronte interno”.
Oggi, il “fronte interno” americano contro l’Iraq sta crollando,
inutile negarlo: la percentuale degli americani che appoggiano il
Presidente – per l’Iraq – è scesa in tre anni dal 50% al 30%
circa. Una débacle.
Come riconquistare gli elettori delusi?
Prima
che il Congresso riesca a bloccare le leggi di spesa, l’idea che può
aver attraversato le mente di Bush potrebbe essere quella di metterli di
fronte al fatto compiuto, giocando d’anticipo. I democratici intendono
smontare pezzo per pezzo la strategia di Bush – affermano che con
Siria ed Iran si deve dialogare – ed a me riservano la parte di un
orso sul quale fare per 18 mesi il tiro al bersaglio?
Io sono il Presidente, ed ho ancora la possibilità di giocare le mie
carte: oggi Bush è il classico cagnolino messo alle corde e chiuso in
un angolo. Sono i cani più pericolosi, perché azzannano per paura.
Come spiazzare i democratici?
La
guerra contro
C’è una risoluzione ONU contro l’Iran – che non prevede l’uso
della forza – ma non è detto che non si riesca a “rivoltarla”
facendo in modo che siano gli iraniani ad attaccare.
Facciamo un’ipotesi: dalla portaerei americana s’alzano regolarmente
velivoli che compiono rapide incursioni ai limiti dello spazio aereo
iraniano. Già, “ai limiti”.
Quali sono questi limiti?
Gli stessi per i quali ancora oggi Hezbollah
ed Israele si gettano l’un l’altro addosso la responsabilità della
causa che scatenò la guerra in Libano: la pattuglia israeliana
attaccata, per gli israeliani era in territorio israeliano, per Hezbollah in quello libanese. Difficile dirimere tali questioni,
poiché pochi metri fanno la differenza: dopo, su quei pochi metri si
litigherà all’infinito.
In
aria non sono metri ma miglia: i velivoli, però, volano normalmente a
circa
Un piccolo incidente, due pattuglie che si scontrano in aria, lanciano i
rispettivi missili aria-aria: non importa come va a finire, perché
oramai il gioco è fatto.
Dopo, parte la catena di ritorsioni: aerei americani entrano decisamente
nello spazio aereo iraniano (per “dare una lezione” a chi li aveva
intercettati nello spazio aereo internazionale), mentre missili
contraerei e velivoli iraniani attaccano aerei americani per garantire i
confini violati della Repubblica Islamica.
Gli
iraniani non possono farcela a lungo contro gli aerei USA e subirebbero
forti perdite, ma c’è la portaerei e, soprattutto, ci sono i missili
antinave Mosquit russi in
grado di raggiungerla ed affondarla. E questo, probabilmente, potrebbe
essere il segreto desiderio di George Walker Bush. Perché, altrimenti,
offrire su un piatto d’argento una portaerei USA quando, dal punto di
vista tattico, non ce n’è nessuna necessità?
Con le immagini dei marinai americani in acqua, aggrappati alle tavole o
sorretti dai giubbotti salvagente, i media di regime avrebbero
finalmente quel casus belli
necessario per partire con un bombardamento indiscriminato dell’Iran,
delle sue città, dei siti nucleari, delle fabbriche e delle vie di
comunicazione.
E
i democratici americani? Cosa potrebbero opporre? A quel punto sarebbero
loro a dover ingoiare il rospo poiché – di fronte ad una nuova Pearl
Harbour – l’elettore americano medio si schiererebbe senza
condizioni dalla parte del Presidente. Chi proponesse trattative
verrebbe immediatamente tacciato di “collaborazionismo” con il
nemico, d’essere un comunista nemico dell’America: al resto
penserebbe il tam tam dei media.
Ciliegina sulla torta, per un Presidente statunitense c’è una sola
possibilità – nell’ordinamento costituzionale americano – per
farsi rieleggere per la terza volta (capitò solo a F. D. Roosevelt:
1936, 1940, 1944): quella che il paese sia in stato di guerra.
Dichiarata o no, grande o piccola, scommetto un penny che George Bush ci
sta pensando.
Carlo
Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it