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L’architrave
di Al-Qaeda
di Carlo Bertani
“Io non mi curo più né del mondo, né del vostro generale; in quanto
ad esseri come voi, a malapena posso credere che esistano, tanto siete
di poca importanza.”
William
Shakespeare – Coriolano – Atto
V Scena 2°
Se
osserviamo la galleria di personaggi che il terrorismo internazionale ha
catapultato sulla scena del pianeta, potremmo creare un organigramma del
terrore: Osama Bin Laden capo indiscusso, nobile shaik
appartenente a pieno titolo alla grande famiglia dei reali sauditi,
oppure il fantomatico Al-Zarqawi, la primula rossa irachena, lo Zorro
mesopotamico. O, ancora, il misterioso mullah Omar, che fuggì in
motocicletta scapolando un posto di blocco americano: nemmeno Telma e
Louise osarono tanto.
Se ci fermiamo di fronte a queste raffigurazioni rischiamo veramente di
ragionare secondo gli stereotipi di Hollywood, giacché nessuno di
questi personaggi ha la statura per reggere la parte che deve saper
recitare sulla scena. Eccetto uno.
Di Al-Zarqawi non sappiamo praticamente nulla; giordano o palestinese,
essere in carne ed ossa oppure ologramma del Pentagono, morto oppure
vivo: chi lo sa?
Il mullah Omar è invece quasi un personaggio omerico minore, un
enigmatico Aiace che non ha mai voce in capitolo, mentre Bin Laden
sembra veramente il pezzo più importante del puzzle, ed invece ci
sbagliamo.
L’importanza
di Osama Bin Laden deriva soltanto dal carisma che porta il suo nome o,
meglio, dal fatto d’appartenere al potente clan dei Bin-Ladin, di
provenire dall’Arabia Saudita come il profeta Maometto, d’essere
ricco e wahabita, ovvero rigido ed intransigente come indicò alla metà
del settecento lo shaik
Al-Wahabi. La ricerca di un’ossessiva purezza nella dottrina, ecco
cos’è la setta Wahabi: mentre in Europa avanzava il secolo dei Lumi,
nel Neghed saudita un oscuro shaik
ribaltava ed affossava definitivamente la liberalità dei grandi califfi
di Baghdad, negando irrevocabilmente le ispirate aperture di quasi mille
anni prima.
Se i personaggi fossero soltanto questi, saremmo di fronte ad una
rappresentazione tragicomica, una compagnia d’attori dilettanti che si
propone come voce del riscatto dell’Islam di fronte allo strapotere
occidentale, una pletora di perdenti in partenza.
L’aspetto curioso di questa vicenda – se ci limitiamo a questi
personaggi – è che si tratta di un palcoscenico double-face, perfettamente sincrono nelle sue mosse per fornire basi
logiche ai solerti “analisti” ed “esperti” occidentali. Costoro
non lesinano mezzi per spaventarci/rassicurarci – secondo le direttive
del momento – dalle poltrone dei media (TV o giornali), che hanno in
comune solo l’arredamento, ovvero enormi poltrone imbottite di soldi.
L’altra
faccia del palcoscenico è invece rivolta alla platea orientale –
sunnita o sciita, marocchina od indonesiana, povera o benestante – per
creare l’effetto mediatico dello scontro di civiltà, per sostenere
anche l’insostenibile, ovvero che la povertà degli islamici dipende
solo dalla ricchezza dell’occidente. Come se gli introiti petroliferi
degli Al-Saud rallegrassero le albe dei miseri somali: Yasser Arafat
dovette piangere in tutti i dialetti arabi che conosceva per ottenere
una spocchiosa carità per i “gloriosi” palestinesi.
Se Al-Qaeda fosse solo questo, sarebbe crollata appena fu invaso
l’Afghanistan, ed invece così non è: chi regge – allora – le
fila del mistero?
Per scoprire le “radici” di Al-Qaeda dobbiamo spiccare un salto nel
tempo e nello spazio, ed atterrare nell’Egitto del 1950 per incontrare
parecchi personaggi, uno dei quali vivente ed attivissimo: Ayman
Al-Zawahiri.
Ayman
Al-Zawahiri nacque al Cairo nel 1951, e non nacque da una famiglia
qualunque ma da una delle più antiche ed importanti famiglie egiziane:
addirittura, gli Al-Zawahiri possiedono una moschea privata. Il nonno di
Ayman era il grande Imam dell’Istituto di Al-Azhar, al Cairo –
Al-Zawahiri di Rabia’ – mentre il prozio – Abdel Rahaman Azzam –
fu il primo segretario della Lega Araba; il padre era invece professore
di Farmacologia all’Università del Cairo.
Il nostro rampollo di buona famiglia crebbe quindi in un ambiente
permeato di valori quali l’alta strategia politica e profonde
conoscenze in campo religioso, il tutto condito da una solida base
scientifica. Sin dall’inizio, però, ebbe frequentazioni meno
“ortodosse” rispetto al suo rango, ossia con la Fratellanza
Musulmana.
Quando Nasser scatenò una delle tante repressioni contro la Fratellanza
Musulmana, Ayman aveva appena 15 anni – siamo nel 1966 – e venne
arrestato ma subito rilasciato. Già, ma chi erano (e chi sono) i
Fratelli Musulmani?
La
Fratellanza Musulmana nacque nel 1928 ad Ismaylia, fondata da uno
sconosciuto insegnante che si chiamava Hassan Al-Banna, il quale si
proponeva di fornire una lettura dell’Islam allo stesso tempo moderna
e coerente con la tradizione del Corano. A ben vedere, si trattò di un
tentativo ben diverso rispetto a quello dei wahabiti sauditi, che invece
proponevano una morale rigidissima ed il ritorno alla purezza delle
origini, anche se identificare queste “origini” – nell’Islam –
non è facile, giacché il periodo storico di massimo splendore
dell’Islam fu quello dei grandi califfati abbassidi di Baghdad – fra
il 750 ed il 900 d. C. – e fu un periodo aureo, di gran liberalismo e
cultura.
Trascorso un millennio, in una casupola di Ismaylia qualcuno meditò di
trovare il bandolo della matassa e conciliare la tradizione con la
modernità. Per comprendere la natura del tentativo dobbiamo fare un
altro passo all’indietro, muovendoci come gamberi, ed osservare
com’era strutturato a quel tempo il Vicino Oriente.
Gli accordi di Sèvres
del 1920 avevano stabilito il protettorato inglese sull’Iraq e
francese sulla Siria: in Palestina, inoltre, era stato dato il placet
dalle grandi potenze per la creazione dello stato ebraico, la futura
Israele.
Per compensazione, fu concessa libertà all’Higiaz – la regione dove
sorgono i luoghi sacri dell’Islam, La Mecca e Medina – che sarebbe
poi divenuta la futura Arabia Saudita.
In tutto ciò c’era un sostanziale tradimento delle speranze degli
arabi, i quali avevano combattuto a fianco degli inglesi[1]
contro i turchi confidando d'ottenere la completa liberazione dai domini
coloniali, ed invece s’erano nuovamente ritrovati fra i piedi francesi
ed inglesi, mentre la politica di lenta espansione degli ebrei in
Palestina li allarmava.
Figura
centrale nella vicenda fu il leggendario colonnello Lawrence – detto
Lawrence d’Arabia – che promise agli arabi (a nome della Gran
Bretagna) mari e monti e fu sconfessato poi dal suo stesso governo –
tanto che alla conferenza di pace di Versailles
del 1919 si sedette per protesta con la delegazione araba – dopo aver
rifiutato la carica di viceré dell’India. Il suo fedele compagno
nelle guerra contro i turchi – lo sceriffo della Mecca Hussein – fu
ricompensato con il regno di Giordania, e l’attuale re giordano
Abdhallah è il pronipote del compagno di lotta di Lawrence: da qui
nascono i profondi legami fra Giordania e Gran Bretagna[2].
All’Egitto – vista
l’importanza del canale di Suez – fu concessa un’indipendenza di
facciata mentre rimase, di fatto, sotto controllo inglese.
Questi avvenimenti erano ancora ben vivi nella memoria araba quando
Hassan Al-Banna fondò la Fratellanza Musulmana, ed in pochi anni il
movimento giunse a contare un milione di militanti, che per la
popolazione egiziana dell’epoca rappresentava un largo consenso.
Dopo la seconda guerra mondiale, la Fratellanza Musulmana appoggiò il golpe
degli “Ufficiali liberi” guidati da Gamal Abdel Nasser, che
nazionalizzò il Canale ed estromise gli inglesi: la “piccola
guerra” di Suez del 1956 rappresentò il tentativo (fallito) di
Francia e Gran Bretagna di mantenere il controllo del Vicino Oriente.
Gli USA stettero alla finestra, giacché non attendevano altro che il
fallimento anglo-francese per proiettare la loro ombra di grande potenza
nell’area: vi fu in quella vicenda anche un tentativo – ordito dal
Mossad – di cooptare gli americani nel conflitto (un finto attentato
arabo contro cittadini statunitensi in Egitto), ma Washington non abboccò
all’amo ed attese che le sclerotiche ex potenze coloniali cascassero
come pere mature.
Oramai,
anche nel Vicino Oriente la contrapposizione era fra USA ed URSS: Nasser
si schierò con Mosca e defenestrò violentemente (impiccandone i
leader) la Fratellanza Musulmana, giacché un Islam invadente mal si
combinava con la nuova via, il socialismo pan-arabo nasseriano.
Questa linea di pensiero – che si radicò in Siria, in Iraq, in Libia
e fra i palestinesi – fu un tentativo di laicizzazione dello stato:
nessuno, più di Gheddafi e di Saddam Hussein, era lontano da Al-Qaeda e
dai wahabiti sauditi, giacché i leader arabi dell’epoca nascevano da
due distinti cespugli, completamente diversi ed opposti per radici
ideali.
Nel frattempo, la Fratellanza Musulmana era diventata
un’organizzazione semi-segreta e – per sfuggire alla repressione di
Nasser – iniziò una diaspora che la condusse ad espandersi
soprattutto in Kuwait ed in Arabia Saudita, ovvero in “casa” dei
wahabiti. Qui iniziarono i rapporti fra la setta integralista saudita ed
il razionalismo politico pan-arabo di tradizione egiziana, ed il Kuwait
fu lo stato che più finanziò la diaspora della Fratellanza Musulmana.
La repressione nasseriana tagliò quindi alla radice il tentativo di
conciliazione fra tradizione e modernismo: l’unico tentato – dopo
mille anni – nel mondo islamico; ciò dovrebbe far riflettere i
sostenitori dell’esportazione della democrazia nel mondo arabo.
In Egitto, gli accordi di pace con Israele – sottoscritti da Sadat a
Camp David nel 1976 – furono letti dai Fratelli Musulmani come un
tradimento e – il 6 ottobre 1981, durante una parata militare –
Sadat fu assassinato proprio da un adepto alla Fratellanza Musulmana.
Si scatenò nuovamente la repressione, e finì in carcere anche
l’ormai trentenne Ayman Al-Zawahiri, che nel frattempo s’era
laureato in medicina all'Università del Cairo: Ayman venne arrestato
per semplice detenzione d’armi, ma trascorse tre anni nelle carceri di
Mubarak.
La dura
detenzione e le violenze subite maturarono nel giovane medico una
determinazione: non ci può essere mediazione fra la classe politica
egiziana, l’Islam ed il pan-arabismo, giacché i dirigenti egiziani
sono asserviti agli occidentali, siano essi russi od americani.
Nel 1984 Al-Zawahiri uscì di galera, ma non tornò nemmeno a casa; fuggì
in Arabia Saudita e quindi fece perdere le sue tracce in Afghanistan,
dove si combatteva la guerra contro i blasfemi sovietici: qui avvenne
l’incontro con Osama Bin Laden. Cosa portò in “dote” il medico
egiziano ai wahabiti che combattevano contro i russi (sorretti da USA e
Pakistan)? Ciò che ad essi mancava, ovvero il pan-arabismo: una visione
più politica che religiosa, razionalità al posto dell’idealismo puro
e semplice.
Questo è un passaggio importantissimo per comprendere lo svolgersi
degli eventi, un avvenimento politico che è la vera base di Al-Qaeda.
Dall’incontro fra le due tradizioni nacque il nuovo sentiero che, da
movimento anti-sovietico al soldo degli occidentali, compì un balzo e
diventò centro di raccordo fra gli interessi petroliferi sauditi e
l’unica strada percorribile, ovvero la sempre agognata unità
pan-araba: che si chiami Al-Qaeda o qualcos’altro, poco importa.
Se Osama Bin Laden è ancora vivo, rappresenta tuttora gli interessi
petroliferi del Golfo, altrimenti qualcun altro ha preso il suo posto,
mentre chi tiene saldamente nelle mani l’organizzazione politica (e
quindi anche i riflessi militari) è Ayman Al-Zawahiri: l’occulta
regia degli attentati di Madrid è sua, e dimostra lungimiranza (ahimè,
terribile) nella pianificazione strategica dei tempi e dei modi del
terrore.
Se
l’organizzazione fosse nelle sole mani di Osama Bin Laden, potremmo
credere alle voci di connivenze con i servizi segreti americani (giacché
Bin Laden fu proprio “a libro paga” della CIA in Afghanistan), ma la
presenza di Al-Zawahiri – per la sua formazione – non ammette
compromessi.
Il concorrente più pericoloso per Al-Qaeda era il “Leone del Panshir”,
il comandante Massud, che aveva combattuto prima contro i sovietici, e
s’era quindi legato al Tagikistan (a sua volta legato a Mosca) nella
lotta contro i Talebani. Massud rappresentava una sorta di “terza
via”, il tentativo d’installare in Afghanistan un governo
d’ispirazione islamica ma non estremista, né legato ai wahabiti.
Massud era un uomo moderno, aveva studiato al Liceo Francese di Kabul
– se vogliamo possiamo paragonarlo, per formazione, in qualche modo ad
Ayman Al-Zawahiri – ma non desiderava avere fra i piedi i wahabiti ed
i loro lacchè, ovvero i Talebani: tre giorni prima dell’11 settembre,
Massud venne ucciso da emissari di Al-Qaeda.
La collaborazione con i wahabiti viene considerata probabilmente da
Al-Zawahiri come necessaria, ma l’uomo ha una diversa origine, e le
vicende alle quali stiamo assistendo sono frutto di un compromesso fra
visioni non precisamente univoche.
Cosa
succederà?
Il primo segnale è già arrivato: nelle recenti elezioni egiziane,
la Fratellanza Musulmana ha superato la “psicologica” soglia del
10%, e passerà dall’avere una sparuta pattuglia di parlamentari a
40-50 deputati, che nell’Egitto pesantemente controllato dai media di
Mubarak è un successo straordinario.
Il medico egiziano prepara il suo ritorno in patria?
Per ora non è all’ordine del giorno un simile azzardo, però la
parabola politica di Mubarak sta rapidamente volgendo al termine, e si
prepara per l’Egitto una stagione d’instabilità politica. Qual è
la ragione del mutamento nei consensi a Mubarak?
Le notizie filtrate dal Daily Mirror sui piani americani per bombardare
Al-Jazeera sono probabilmente vere e false allo stesso tempo: false,
giacché un simile atto sarebbe stato deflagrante per i piccoli stati
del Golfo – alleati di Washington più per paura dei potenti vicini
che per reale convinzione – ed avrebbe generato nuovi guai
internazionali per gli USA. Vere perché è tradizione del Pentagono
stendere centinaia di piani d’intervento, che vengono analizzati sin
nei dettagli, pianificati e quindi archiviati: all’occorrenza, il file
è già pronto nella memoria del computer e bastano pochi aggiornamenti
per attuarlo.
Non è
questa però la centralità della notizia, bensì l’analisi delle
ragioni che potrebbero condurre Washington ad un simile gesto.
Lo spostamento dei consensi verso il fondamentalismo è chiaramente
catalizzato dalla diffusione dell’informazione: anche se la censura
militare cerca in tutti i modi di “edulcorare” la pillola, le
torture ed i bombardamenti indiscriminati primo o dopo vengono a galla.
Uno degli ultimi fallimenti di Bush è stato negare l’uso del napalm a
Falluja, ma sostenere che erano state sganciate soltanto “bombe
MK-77” è un pietoso eufemismo: “MK” è la codifica USA per
l’armamento di lancio non guidato (le bombe) – come le MK-82 da 500
libbre e le MK-84 da 2.000 libbre (a semplice esplosivo) – mentre la
sigla MK-77 identifica con precisione un ordigno incendiario al napalm.
Questa serie di menzogne, poi scoperte – da Abu Ghraib in poi,
passando per le false prove sull’esistenza delle armi di distruzione
di massa di Saddam, ed oggi l’uso d’armi proibite (le stesse che
dovevano essere trovate!) – non passa sulla testa delle popolazioni
arabe come il tanzim, il vento
del deserto.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, le immagini dei bombardamenti non
fanno altro che spostare consensi verso l’ala radicale, che vede in
Al-Qaeda l’unico baluardo contro l’espansionismo USA. Questa era la
ragione di quel piano disperato: la negazione dell’informazione per
condizionare il consenso.
Al vertice
politico e strategico di Al-Qaeda non ci sono pecorai della steppa, bensì
un medico egiziano che ha alle spalle una lunga militanza politica ed un
finanziere saudita esperto nel mediare gli interessi petroliferi del
Golfo con le stragi in Iraq e nel mondo. Perfida alchimia del nuovo
millennio: la trasmutazione del petrolio in sangue, e del sangue in
dollari per la vendita del greggio.
Mentre l’uragano Katrina squassava la Louisiana – e riduceva di 1/3
la capacità USA di raffinazione – puntualmente saltava l’oleodotto
di Kirkuk: perfetta sincronizzazione fra terrorismo ed interessi
petroliferi, per mantenere alto il costo del greggio.
Probabilmente, per Al-Zawahiri l’alleanza con i wahabiti è l’unica
possibile per raggiungere il suo scopo: aumentare lo share
di Al-Qaeda nel mondo arabo e detronizzare i governi moderati. La difesa
degli interessi petroliferi è solo un mezzo, non il fine: parrebbe
quasi un post-leninista del terzo millennio.
Come possiamo credere che alla testa di una simile organizzazione ci
siano personaggi come Al-Zarqawi ed il mullah Omar? Non confondiamo le
pedine con i re e le regine: la strategia di Al-Zawahiri è proprio lo
spostamento dei consensi delle popolazioni arabe verso quello che noi
chiamiamo terrorismo, mentre per loro diventano – ogni giorno di più
– forze di resistenza all’occupazione occidentale.
Qual è la differenza? Una sola: Al-Qaeda è governata da un esperto
politico, formatosi in anni di lotta contro i governi arabi moderati
(per loro, asserviti all’Occidente), mentre sull’altra sponda c’è
un Presidente che si atteggia a grande stratega senza nemmeno aver fatto
il servizio militare. Quando il morale delle truppe scende a picco –
ed anche gli ufficiali iniziano a mugugnare – George si rifugia nel
ranch di Crawford, oppure telefona a paparino e riceve una “dritta”
per cavarsela in corner. Fino al tonfo seguente.
Carlo
Bertani bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
[1]
Nel 1917 partecipò alle operazioni nel Sinai contro i turchi anche
un contingente di cavalleria italiano.
[2]
La vicenda di Lawrence viene spesso presentata come una pagina
epica, mentre è politicamente centrale per comprendere gli sviluppi
del Vicino Oriente. Per chi desiderasse approfondire l’argomento,
posso rimandare al libro che ho pubblicato sull’argomento: Carlo
Bertani – Al Qaeda, chi è,
da dove viene, dove va – Malatempora – Roma – 2004.