|
Gli alfieri del disordine mondiale
di Philip S. Golub* da "Le Monde Diplomatique"
La storia del ruolo dell'America nel moderno sistema
mondiale può essere interpretata come un processo di costruzione imperiale, che
ha avuto inizio nel XIX secolo. [...] Oggi, dopo la scomparsa dell'Unione
sovietica, ci troviamo nel secondo decennio di unipolarismo e gli Stati uniti
continuano a portare avanti la loro inarrestabile politica di espansione. La
politica estera americana (la «dottrina Bush») è oggi basata sul
rafforzamento delle capacità difensive Usa, sulla rimozione degli «stati
canaglia» che potrebbero minacciare lo status quo del dopo-guerra fredda e sul
consolidamento del controllo esercitato sull'ordine del dopo-guerra fredda. Per
raggiungere questi obiettivi, l'amministrazione americana ha attuato due
movimenti: 1) Avviato una vasta mobilitazione tecnologico-militare 2)
Abbandonato la deterrenza in favore di una dottrina offensiva di interventi
militari «preventivi».
Roma, specchio dell'impero
Secondo la strategia della Casa bianca, la mobilitazione
militare deve procurarle una supremazia militare indefinita su ogni altro
possibile rivale o coalizione di rivali. In termini quantitativi, il bilancio
militare degli Stati uniti è oggi pari al bilancio dei successivi quindici
paesi messi insieme. E' dieci volte superiore a quello della Cina, l'unica
grande potenza rimasta sulla scena mondiale. Ma se si includono le voci di
bilancio eccezionali determinate ad esempio dalle guerre in Afghanistan e in
Iraq, le spese militari degli Stati uniti sono in realtà molto più elevate.
Dal 2005, la sproporzione tra gli Stati uniti e il «resto del mondo» saranno
ulteriormente aumentate, e il bilancio della difesa Usa sarà pari a quello del
resto del mondo. Come ha avuto modo di dire Paul Kennedy, «non è mai esistita
una tale disparità di potenza».
Questo sforzo nel campo della difesa è andato di pari
passo all'enorme espansione dell'arcipelago militare statunitense. La nuova
cintura di basi militari e protettorati nel luoghi strategicamente più
importanti del pianeta, come il Mediterraneo orientale e l'Asia meridionale ha
fornito agli Stati uniti l'opportunità di proiettare il proprio potere in
Medioriente, nel Golfo e in Eurasia.
L'espansione è stata alimentata da un vigoroso discorso
imperiale. Se l'amministrazione Bush afferma che non ha «imperi da estendere o
utopie da realizzare», la nuova coalizione dominante di neo-conservatori e
nazionalisti radicali di destra passa il suo tempo a sognare ad occhi aperti un
impero. L'antica Roma è diventata lo specchio distante che riflette le loro
ambizioni di estendere la supremazia americana. Non per altro il
neo-conservatore Charles Krauthammer ha detto che «nessun paese ha avuto una
posizione così dominante nel mondo, dal punto di vista culturale, economico,
militare e tecnologico, dopo il tardo impero romano». Robert Kaplan,
frequentatore assiduo dello studio ovale, suggerisce che «Roma è un modello da
seguire per un potere egemonico, che usa diversi mezzi per garantire un po' di
un ordine in un mondo disordinato». In modo altisonante un giornalista ha
scritto: «siamo una grande repubblica imperiale, votata ad esercitare
un'influenza e un controllo sulle azioni dell'umanità e a plasmare il futuro
del mondo come mai è avvenuto prima, nemmeno all'epoca dell'impero romano».
Significativamente, uno dei primi atti di Donald Rusmfeld da segretario alla
difesa è stato ordinare uno studio comparativo confidenziale degli antichi
imperi in modo da stimolare la riflessione su come mantenere la supremazia
americana nel XXI secolo. Dopo il crollo dell'Unione sovietica, l'incremento
dell'autonomia degli Stati uniti ha fatto aumentare la capacità dell'America di
rimodellare il mondo a proprio vantaggio. Schematicamente, questo si è tradotto
in tre principali opzioni per la governance globale. Dalla più
progressista alla più autoritaria, le definirò come segue: 1) globalismo
neo-wilsoniano, o creazione di un ordine mondiale politico ed economico con al
centro l'America. Tale opzione implica che la politica americana si concentri su
questioni globali che richiedono una cooperazione istituzionalizzata e la
costruzione del consenso. 2) Neo-realismo, o mantenimento dello status quo del
dopo-guerra fredda attraverso un mix di cooperazione e coercizione. 3)
Neo-militarismo o esercizio del monopolio della forza da parte degli Usa per
rafforzare il dominio ottenuto nel 1991 e estendere l'unipolarismo. Questa
opzione radicale è nata durante l'amministrazione Reagan ed è stata articolata
in forma dottrinale subito dopo la prima guerra del Golfo dagli intellettuali
neo-conservatori cooptati al Pentagono da George H. W. Bush (1988-1992).
La guerra del Golfo del 1991 è stata un dono del cielo per
il complesso militar-industriale. Rimuovendo la principale giustificazione per
quella che Seymour Melman aveva definito «l'economia di guerra permanente», la
fine della guerra fredda aveva minacciato lo stato della sicurezza nazionale. La
guerra rimobilitava le forze armate americane e creava una nuova giustificazione
- combattere gli «stati canaglia» - per il mantenimento delle spese militari
della guerra fredda. Nel febbraio 1991, poco dopo la fine della guerra, l'allora
segretario alla difesa Dick Cheney disse al Congresso che la guerra del Golfo
era «un esempio dei tipi di conflitto che dovremo affrontare nella nuova era».
Aggiunse quindi che gli Stati uniti dovevano definire la loro politica e le
proprie forze «in modo da svolgere azioni deterenti o rapidamente debellare
simili minacce regionali in futuro». La guerra del Golfo aveva anche
dimostrato, nelle parole di due ricercatori del Council on Foreign Relations,
che la «potenza militare rimaneva più importante che mai nei rapporti
inter-statuali». Come ha sottolineato lo storico Bruce Cumings «se la Corea ha
rappresentato l'alpha del complesso militar-industriale, l'Iraq è stato
l'omega. La fine della guerra fredda non ha provveduto allo smantellamento
dell'enorme macchina messa in moto negli anni `50, una macchina a moto perpetuo
costruita per la guerra e i cui interessi si basano sul fare la guerra». Oggi
sappiamo che la guerra non era l'ultimo ma il primo passo nella strategia di
dominio della destra radicale, definita in forma dottrinale nel Defense Planning
Guidance (Dpg) 1992-1994 del Pentagono. Scritto da Paul Wolfowitz e I. Lewis
Libby (oggi rispettivamente vice-segretario alla difesa e capo dello staff del
vice-presidente Dick Cheney), il Dpg proponeva una nuova grande strategia
americana: «impedire ad ogni potenza ostile di dominare regioni le cui risorse
potrebbero consentire agli Stati uniti di aumentare il proprio status di potenza»,
«scoraggiare i tentativi da parte di nazioni industrailizzate di sfidare la
leadership americana o modificare l'ordine costituito politico ed economico», e
«precludere l'emergere di ogni futuro concorrente globale». Questa politica
venne respinta dai realisti tradizionali, fra cui lo stesso George H. W. Bush,
ma non fu mai abbandonata dal campo neo-conservatore. Nel 1995, Zalmay Khalilzad,
oggi funzionario delegato dal Dipartimento di stato per l'Afghanistan e l'Iraq,
scrisse: «il miglior principio guida per gli Stati uniti dovrebbe consistere
nel mantenere la leadership globale ed evitare l'emergere di un rivale globale o
un ritorno del multilateralismo». Questa è la politica che è tornata in auge
con George W. Bush. Le guerre in Afghanistan e Iraq hanno rafforzato
notevolmente il potere istituzionale del Pentagono.
Come ha argutamente sottolineato Maureen Dodd del New York
Times: «è ormai facile ritrarre Donald Rumsfeld con una grande armatura di
metallo, uno scudo e sandali da gladiatore: Rummius Maximus Pompeius».
Un'alleanza basata sulla guerra
I consoli e i pro-consoli della destra neo-conservatrice
stanno oggi sfruttando l'opportunità strategica che aspettavano da un decennio
per rimodellare l'America e il mondo. Ma le ragioni interne del militarismo
vanno ricercate nell'inedita alleanza tra neo-conservatori e cristiani
fondamentalisti, le due principali forze sociali e ideologiche nel partito
repubblicano del dopo-guerra fredda. Essi rappresentano due distinte
deformazioni del nazionalismo americano e sono radicati in strati sociologici
diversi. Il militarismo cristiano proviene dai «maschi bianchi protestanti dei
ceti medio e basso», dall'America profonda. Il neo-conservatorismo è invece un
fenomeno molto più ristretto, limitato all'intellighenzia di destra vicina al
governo o parte di esso, ai think tank, alle università, ai media.
Durante la guerra fredda, la «minaccia sovietica»
consentiva al governo di incanalare le varie correnti incoerenti del
nazionalismo americano in un unico obiettivo globale unificante. Per rimanere
coesa, l'attuale alleanza tra, da una parte, gli strati sociali «profondi»
tradizionalmente diffidenti del governo e contrari ad ogni coinvolgimento in
politica estera e dall'altra gli attivisti internazionalisti di destra, doveva
necessariamente richiedere una guerra. Come la guerra fredda, la guerra al
terrorismo e agli «stati canaglia» ha fornito un obiettivo strategico
unificante alla potenza statunitense e creato una coesione temporanea. Senza
l'obiettivo unificante, questa coalizione non potrebbe durare.
*Giornalista esperto di strategia e politica statunitense e
professore dell'Università Paris-VIII.