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Il «caso
Moro»: il linguaggio
esoterico che permise a mandanti, esecutori, ambiziosi rivendicatori,
massoni e servizi segreti, di criptare la verità nel «Codice Mor»
13 aprile 2004 - in collaborazione con Disinformazione.it
Saranno
pure semplici coincidenze, ma è ormai chiaro che da quando alcuni
organi giudiziari hanno preso in considerazione tra i possibili moventi
della criminalità, anche quello cosiddetto "esoterico",
improvvisamente si è tornati a parlare del caso giudiziario più
contorto della storia italiana, appunto il "caso Moro". Uno
dopo l'altro sono scesi in campo i vecchi e nuovi protagonisti, ciascuno
per avanzare interpretazioni più evolute, riflessioni col senno di poi,
si ridà voce a coloro che pure ebbero un ruolo "ufficiale",
almeno nelle aule di Giustizia, tutti
condannati come autori del progetto crimal-politico finalizzato a
colpire il cuore dello Stato, costringere lo Stato a
"trattare" con ragazzi
che pure a via Fani divennero stragisti, stragisti in divisa, una divisa
dello Stato Italiano.
Quante volte, ripensando a questo particolare così stridente, così
contraddittorio, mi sono chiesta, se mai come sessantottina, avessi
fatto anch'io la scelta della lotta armata, "per una società
migliore", quante volte mi sono chiesta se avrei accettato di
"mortificare" la mia identità di "rivoluzionaria"
mimetizzandomi dentro una divisa: ebbene mi sono risposta sempre con un
secco "NO".
Chi erano allora coloro che pure tentarono di sparare, e qualcuno
sparò davvero e uccise massacrando? E perché non indossarono i panni
più anonimi della gente comune, panni più conformi a quella classe
operaia di cui si erano
autopromossi "portavoce colti"?
Eppure, nelle manifestazioni di piazza, nelle fabbriche, là dove
veramente si alzavano i toni, e si percepiva netto il clima della
rivoluzione, non c'erano travestimenti, né divise, c'era la
determinazione a tener duro, pronti a tutto pur di ribaltare un sistema
fondato sul capitalismo di pochi, e sui diritti negati ai più: lo
studio, la casa, un piatto caldo per tutta la famiglia. O non erano
queste le discussioni che esplodevano all'interno delle famiglie, le
contestazioni forti dei figli stufi di alzarsi da tavola con la fame, di
vedere la madre china sui piatti da lavare, il padre muto o irascibile
dopo una giornata di lavoro pesante, incapace di guadagnare o regalare
un sorriso? E quando poi, per anni, padri, madri, fratelli, si sono
visti in fila per un'ora di colloquio dietro le sbarre, privandosi anche
del necessario pur di portare un segno di affetto ai mancati eroi di una
guerra persa o mai fatta, senza poter dire: "te l'avevo detto,
figlio mio…"?
E che c'entrava
Moro, l'unico uomo di Stato che semmai si era posto il problema di
quella gioventù di cui conosceva le proteste e i silenzi, nei cui
sguardi cercava di comprendere le ragioni di quanto lo Stato non avrebbe
potuto continuare ad ignorare, quando la sera o nei giorni di festa
osservava ogni gesto, ogni atteggiamento dei suoi stessi figli che di
quella generazione facevano parte, senza sentirsi diversi dai compagni di studi, dai coetanei di cui forse intimamente
ne invidiavano una maggiore libertà di espressione? Torno a chiedere:
"Che c'entrava Moro"? Chi lo conosceva, chi seguiva le sue
lezioni, chi raccoglieva le confidenze dei figli all'Università, nelle
riunioni, sapeva bene che uno dei momenti più sereni e anche allegri
per Moro, era quando la sera poteva leggere il suo quotidiano preferito,
L'Unità, e lo si sentiva ridere a casa, perché quel giornale colpiva
nel segno, e forse Moro si immedesimava nei colleghi di partito, messi
ai raggi x da una sinistra acuta e intelligente, critica e preparata per
quel progetto maturato in lui e temuto dalla Democrazia Cristiana come
un minaccia per lo Stato, assai più temuto delle Brigate Rosse.
E ancora chiedo: "Che c'entrava Moro"? Perché mai le
Brigate Rosse avrebbero escluso di fatto l'unica possibilità avanzata
da un uomo di Stato, Moro, lui che guardava anche alle problematiche
politiche, ideologiche e sociali di coloro che già tanto sangue avevano
procurato, l'unico pensiero sensibile al pericolo di una contestazione
ormai incontenibile e che trovava alimento oltre i confini Italiani,
destabilizzando alleanze ormai inadeguate alla realtà dei più?
O è più logico pensare alle Brigate Rosse come un'opportunità da
considerare al momento giusto, qualora lo Statista avesse davvero
tentato di affermare un Governo di più ampio respiro, e capace di
sedare nell'interesse di tutti la rabbia, la protesta, di una
generazione con la voglia di esserci?
E' una realtà che
le Brigate Rosse ambivano ad un'azione eclatante, simbolica, un vero e
proprio attacco al potere, del quale il
simbolo per eccellenza si concentrava nella figura di Giulio
Andreotti, i cui tentacoli oltrepassavano gli Oceani ancorandosi ai fusi
orari nella veglia senza sosta del dominio, capace di controllare e muovere le menti
sulla scena mondiale del compromesso, delle invisibili tessiture
sul telaio dei ricatti eterni e garantisti a futura memoria.
Sono vivi nei miei ricordi quegli anni, quando all'Università,
la Sapienza, mi investiva l'odore delle bombe molotov lasciato nell'aria
dalla guerriglia del giorno prima. Pensavo di seguire le mie lezioni di
Medicina, ma poi mi bastava vedere la scalinata di Giurisprudenza, e
dall'altra parte la Facoltà di Lettere, e mi passava la voglia di
studiare, come se commettessi un peccato mortale ad estraniarmi dalle
ragioni, opposte tra di loro, che pure vedevano impegnati nella
contestazione degli anni di piombo i miei coetanei. Mi piacevano le idee
degli uni, ma anche degli altri, nonostante il mio carattere volitivo
tendeva sempre a scelte estreme, eppure c'era del giusto nei
"rossi" e c'era del giusto nei "neri", e così a
decidere il mio schieramento ideologico della giornata, più che le
ragioni politiche, prevalevano le ragioni sentimentali.
Alberto, mio fratello, era più "nero" dei fascisti, si era
completamente permeato della cultura di famiglia, riuscendo a sopportare
anche la "dittatura" di nostro padre, fino ad iscriversi al
FUAN, dove convergevano i "picchiatori scelti".
Io invece pretendevo più libertà, e invidiavo le ragazze che non
avevano orari per tornare a casa, che non erano obbligate a telefonare
alla mamma se c'era un ritardo, ma allo stesso tempo non avrei
rinunciato per nulla al mondo al mio fine settimana, al ballo del sabato
sera, alla mia cinquecento, ai miei modi da studentessa-bene, al
fidanzatino che faceva precedere l'invito a cena da un mazzo di fiori, e
scendeva dalla bella macchina per aprirmi lo sportello.
Spesso, quando
c'era laboratorio nel pomeriggio, mi fermavo a pranzare alla casa dello
studente, e fu proprio lì che mi accorsi che le divisioni, i conflitti
ideologici, le contraddizioni stesse non erano le vere cause di quella
violenza che a breve sarebbe esplosa irrimediabilmente.
Certo, c'erano delle diversità, i ricchi, i meno agiati o quelli che a
mala pena riuscivano a fotocopiarsi i libri di testo, ma le cose in
comune erano di più, e fuori dalla strumentalizzazione di altri,
riuscivano a cementare anche le distanze più grandi. La cultura
stessa era motivo di aggregazione, così come lo erano i nostri
vent'anni. Il pericolo era altrove, e Moro forse lo aveva ben compreso.
Quando arrivava all'Università, il suo sguardo, composto, discreto, era
ampio, e valeva per i "rossi", per i "neri", e per
gli aggruppamenti di giovani come noi,
sia pur bardati con il casco, lo scudo, e il manganello, pronti a
caricare, al primo comando. Mi venne voglia di andarlo a sentire in una
delle sue lezioni, volevo ascoltare il timbro della sua voce. Non aveva
il carisma dell'oratore di piazza, ma il suo pensiero rifletteva le
preoccupazioni che si portava dentro, come di chi sapeva fin troppo bene
che nell'ambito delle sue funzioni governative e di Stato, le sue idee
sarebbero state ignorate, o peggio, imprigionate, così come lui
stesso sarebbe stato il "prigioniero".
Parlava della "Ragione di Stato" come di un valore assoluto,
nel cui nome, se necessario, si doveva esser pronti a sacrificare tutto,
ma faceva bene intendere che lo Stato nel suo concetto non lo si
identificava in un partito, nemmeno nella Democrazia Cristiana.
Per questo, anche nelle immancabili discussioni politiche tra
studenti, non era certo la figura di Moro a surriscaldare gli animi di
quelli che si definivano "di sinistra", anzi a volte ci si
rideva su, immaginandolo con i suoi discorsi, seduto vicino ad Andreotti
e a quelli che chiamavamo i "Demoni Cristiani", né avremmo
mai immaginato che le Brigate Rosse ne facessero il simbolo della loro
azione storicamente più importante.
Moro davvero guardava a sinistra, e lo confermano alcuni pensieri che
sua figlia Agnese ha recentemente raccolto in un libro.
"….E' un
giorno importante, torna a casa contento. Per la prima volta - mi dice -
ci sarà un Presidente del Senato del Partito Comunista Italiano. Sono
stati vinti ogni resistenza e ogni timore. Me ne informa lieto…".
E ancora: "Non credo che gli piacesse leggere i giornali. Lo faceva
perché lo doveva fare. C'era però qualcosa che leggeva davvero con
grande piacere: i corsivi di Fortebraccio su L'Unità. Ti accorgevi che
ne stava leggendo uno perché cominciavi a sentirlo ridere da solo.
Prima una risatina, quasi soffocata, poi un'altra, poi a volte, fino
alle lacrime. Dopo che aveva finito di leggere, ci chiamava. E
ricominciava a leggerlo a voce alta per noi. La lettura era spesso
interrotta, perché rideva talmente tanto, che non riusciva a
proseguire. Il fazzoletto veniva tirato fuori dalla tasca della giacca
da casa due, tre volte. Energiche soffiate. Una passata sugli occhi per
asciugare le lacrime…".
Ma allora perché, perché Aldo Moro? La domanda è sbagliata, e per
questo non si riesce a dare una risposta logica, accettabile nella
cosiddetta logica delle Brigate Rosse.
La domanda che è doveroso porsi ora è: chi ideò il sequestro di Aldo
Moro e chi lo condannò a morte? Le risposte possono essere più di una,
ma tra quelle più verosimili, le Brigate Rosse appaiono una forzatura,
un aggiustamento, una precauzione simile alla firma che si appone in
calce ad un compromesso, con la postilla: "per me o società o
persona da nominare". E ancora dobbiamo chiederci: "Gli
ispiratori del sequestro di Aldo Moro, furono gli stessi che ne decisero
la morte?". Quel giorno, un mio amico di Università, Stefano
Nuvoloni, mi chiese di accompagnarlo all'assemblea di Lotta Continua che
si teneva al Magistero. C'era molta tensione, e si discuteva di un
possibile e necessario attacco "al cuore dello Stato". Allora
davvero dire "Stato" era dire "Andreotti", e su
questo erano tutti d'accordo, Potere Operaio, Lotta Continua, e anche
quelli che "clandestinamente", pur essendo già BR,
frequentavano questo tipo di riunioni. Coloro che non passarono alla
lotta armata, ma portarono avanti un discorso politico di "affinità",
ancor oggi rivestono cariche politiche e istituzionali. Ebbene,
l'opinione di costoro, in quell'assemblea, era proprio quella di
"indebolire" Andreotti e fortificare Moro, come? Non certo
eliminandolo, semmai coinvolgendo di più quelle Istituzioni che per
Aldo Moro, per le sue qualità di Statista, sarebbero state più
sensibili che per Andreotti.
Almeno così speravano gli "ispiratori", forse gli stessi e
gli unici che cavalcarono la "trattativa" piuttosto che la
"fermezza". E nella "trattativa" avrebbero confidato
le BR, in conformità alle loro logiche, comunque estranee al concetto
di "strage", più congeniale a menti raffinate.
Già negli anni
ottanta, di brigatisti ne conobbi tanti , reclusi nelle carceri
italiane, e quest'esperienza mi confermò nelle mie più remote
convinzioni, anzi fui la prima persona a sostenere l'esistenza di una
eterodirezione delle BR, così come ebbi modo di formalizzare nel corso
di una audizione da parte della Commissione Parlamentare Stragi
presieduta dall'allora senatore Libero Gualtieri.
I motivi di tale mia certezza erano scaturiti non solo
dall'incompatibilità tra la figura di Moro e l'ideologia delle Brigate
Rosse, ma anche, dopo averli conosciuti uno ad uno, irriducibili,
dissociati, pentiti, dal non averne riscontrato i caratteri della
vigliaccheria, nel senso che per loro, il ricorso alla violenza era
strettamente relativo all'obiettivo: non ho mai percepito in nessuno di
loro la crudeltà "inutile" o spietata contro soggetti non
protagonisti dell'azione stessa, come invece si verificò in via Fani.
Un'intera scorta, uomini, padri di famiglia senza poteri, né
rappresentanze simboliche, trucidati, massacrati, per un rapimento?
Quegli uomini, avrebbero potuto essere genitori di brigatisti,
così come realmente furono tanti i giovani che, figli di poliziotti o
di carabinieri, entrarono nell'organizzazione eversiva.
Chi furono dunque gli stragisti di via Fani? E perché gli uomini della
prima scorta "dovevano" morire tutti? Per chi sarebbero stati
pericolosi, come eventuali testimoni? Non certo per le Brigate
Rosse…Anche un solo superstite, avrebbe potuto dire che la mattina del
16 marzo del 1978, a via Fani l'onorevole Aldo Moro…….STOP!
La Storia, per capirla , la si deve percorrere tutta, passo dopo passo,
così come questa storia, senza buchi e senza veli. Ed è quello che ci
proponiamo di fare, raccontando ciò che altri, ancor oggi, dopo
ventisei anni, pur sapendo, non hanno il coraggio di raccontare, né
ebbero quello di ascoltare.
(continua)
Gabriella Pasquali Carlizzi