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L'Africa taglieggiata
dai signori del petrolio
Un
cinico sistema di corruzione, spreco e sfruttamento inchioda molti Paesi
alla miseria
Romanello
Cantini - tratto da «Avvenire» 26 ottobre 2003
Diversi
Paesi africani stanno ormai diventando importanti produttori di
petrolio. Non si tratta solo di Stati che - come la Nigeria, la Libia e
l'Algeria - da oltre mezzo secolo sono tra i primi venti produttori
d'idrocarburi al mondo, ma anche di realtà che - come Angola, Guinea
Equatoriale e Gabon - hanno cominciato a sfruttare più di recente i
loro giacimenti petroliferi, con prospettive promettenti per il futuro.
Nonostante questa manna che viene dal cielo (o meglio, dal sottosuolo),
agli abitanti di un continente così affamato di risorse e bisognoso di
capitali il mensile satirico dell'Africa occidentale «Le Marabout» ha
recentemente suggerito che «se per caso scavando nel vostro orto
trovate il petrolio, forse è meglio che tamponiate il buco e non ne
facciate nulla». Una battuta paradossale, spiegata con alcuni esempi:
«Il petrolio ha portato in Nigeria 350 miliardi di dollari negli
ultimi 40 anni. Di questi, circa cento sarebbero spariti. Oggi il
reddito pro capite dei nigeriani è di 283 dollari l'anno. Appena un
po' più di quello del contadino del Burkina Faso, che non ha altro da
offrire al mondo che un po' di miglio e di cotone. Anche in Guinea
Equatoriale - continuava ancora la rivista -, Paese che ha scoperto il
petrolio nel 1995 e oggi produce 0,44 barili per ogni abitante (tanto
quanto Arabia Saudita e Kuwait), quasi nulla cambia».
Non si tratta solo delle naturali iperboli di un giornale satirico, che
mette l'accento sia sulla mancata redistribuzione del gettito
petrolifero sia sulla corruzione, in fondo due facce di uno stesso
problema. Appena l'anno scorso, l'organizzazione non governativa «Global
Witness» calcolò che nel 2001 dalle casse dell'Angola, che pure
ricava l'87% del reddito dal petrolio, sarebbero spariti ben 1.600
milioni di dollari, un terzo delle entrate, finiti nelle tasche di
due petrolieri locali.
Questo
meccanismo perverso, per cui buona parte della rendita si appiccica alle
mani di chi la gestisce, è un misto di corruzione e di sfruttamento in
cui sono complici e conniventi membri del potere locale, mediatori senza
scrupoli e grandi multinazionali. Le compagnie petrolifere del posto,
quasi sempre in mano a parenti o amici di chi è al potere, pretendono
tangenti per sé e per gli intermediari, e alle grandi compagnie
internazionali che acquistano il petrolio impongono il silenzio sulle
transazioni illecite. Dal canto loro le multinazionali come la British
Petroleum, la Exxon Mobil, la Chevron Texaco, la Total Fina Elf,
stanno cinicamente al gioco pur di essere premiate con sconti sui
prezzi, e conservano i segreti per non venire escluse dal mercato locale
come rappresaglia.
Di recente uno che di queste cose se ne intende, il finanziere George
Soros (che dopo aver contribuito con le sue speculazioni negli anni
Novanta a mettere in crisi le monete di Malaysia, Russia e Brasile ora
cerca di redimersi con iniziative filantropiche e conflitti sempre più
aspri al sistema capitalistico), ha iniziato la campagna perché in
primo luogo le grandi multinazionali del petrolio siano costrette alla
trasparenza nei loro contratti e nelle transazioni. È il minimo che
oggi si possa iniziare a fare per cercare di indurre i governi africani
a una prima pratica di buon governo e per troncare un gioco che è
sporco perché svolto sulla pelle del continente più disperato del
mondo.