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L’Acqua
rubata. Dalla mafia alle multinazionali
Umberto
Santino
I
lupi e gli agnelli
L’acqua è già e lo sarà ancora di più
nei prossimi anni uno dei problemi più gravi che l’umanità si trova
a dover affrontare. Sempre più frequentemente sentiamo dire che le
risorse idriche stanno diventando sempre più rare (ma spesso si
enfatizza a bella posta l’allarme sulla penuria d’acqua come se
fosse un dato ineluttabile) e sempre più di difficile accesso.
Le politiche sull’acqua che si sono
imposte negli ultimi anni sono imposte dalle società multinazionali e
rispondono a logiche di mercificazione e di privatizzazione. L’acqua
viene considerata non un bene pubblico ma una merce nelle mani di pochi
grandi gruppi industriali che agiscono perseguendo la massimizzazione
dei profitti. L’accesso all’acqua sarebbe un bisogno che ciascuno
deve cercare di soddisfare come può, non un diritto che dev’essere
garantito a tutti, in base a una considerazione che dovrebbe essere
ovvia ma non lo è: l’acqua non è un bene economico qualsiasi ma una
fonte di vita e la vita dev’essere assicurata a tutti, fa parte di
quei diritti inalienabili e immercificabili che ognuno acquisisce
nascendo.
Invece nel mondo attuale il liberismo
viene applicato a tutto e il soddisfacimento del “bisogno” d’acqua
dipende dalla volontà dei “signori dell’acqua”, i quali si
comportano come il lupo e l’agnello della favola: chi sta in alto
dispone a suo piacimento se fare bere o meno chi sta in basso e ogni
pretesto è buono per negare o razionare l’accesso, manovrando la leva
dei costi.
Queste politiche che potemmo
sinteticamente definire come “uso privato di risorse pubbliche”
hanno precedenti storici, di cui forse l’esempio più significativo
possiamo trovarlo in Sicilia.
Il controllo mafioso dell’acqua come esempio di uso
privato di una risorsa pubblica
L’acqua è uno dei settori su cui i
gruppi mafiosi hanno esercitato il loro dominio. La mafia siciliana non
è solo un’organizzazione criminale ma qualcosa di più complesso: i
gruppi criminali agiscono all’interno di un sistema di relazioni,
hanno rapporti con il contesto sociale, con l’economia, la politica e
le istituzioni, le attività delittuose sono intrecciate con attività
legali e perseguono fini di arricchimento e di potere.(1)
Nessuna sorpresa quindi se la mafia ha rivolto particolare attenzione a
una risorsa fondamentale come l’acqua, approfittando delle opportunità
offerte dal contesto politico-istituzionale.
Con la costituzione dello Stato unitario
non c’è stata in Italia una politica di pubblicizzazione e
regolamentazione delle acque e in Sicilia, in particolare nelle campagne
palermitane, si è imposta la pratica del controllo privato esercitato
da guardiani, i “fontanieri”, stipendiati dagli utenti. I guardiani
erano nella maggioranza legati alla mafia, così pure i
“giardinieri”, cioè gli affittuari e gli intermediari.
Il controllo sull’acqua ha causato
contrasti che sono all’origine delle guerre di mafia. Nell’ottobre
del 1874 viene ucciso a Monreale, il centro vicino Palermo sede del
famoso duomo arabo-normanno, il fontaniere Felice Marchese. Il delitto
si inserisce nel conflitto tra due organizzazioni mafiose rivali, i
Giardinieri e gli Stoppaglieri, che è la prima guerra di mafia
documentata(2).
Successivamente, nell’agosto del 1890,
si avrà un altro omicidio. Questa volta a cadere è il guardiano
dell’acqua dell’Istituto psichiatrico di Palermo, Baldassare La
Mantia, che si era rifiutato più volte di favorire i fratelli Vitale,
gabelloti (affittuari) e capimafia della frazione palermitana Altarello
di Baida. Interessante l’analisi della situazione che a partire da
questo omicidio fa il questore Ermanno Sangiorgi che in una serie di
rapporti ricostruisce la mappa delle famiglie mafiose e dà
un’immagine di essa (un’organizzazione diffusa sul territorio e
strutturata centralmente) molto simile a quella che negli anni ’80 del
XX secolo sarà “scoperta” attraverso le dichiarazioni dei mafiosi
collaboratori di giustizia:
È noto come questa delle usurpazioni destinate all’irrigazione
dei giardini rappresenti una delle fonti d’illecito guadagno della
criminosa associazione, ed è facile intuire che la resistenza del La
Mantia oltreché offesa all’autorità della mafia costituì grave
minaccia agli interessi economici della setta, potendo fare scuola agli
altri guardiani dell’acqua non affiliati all’associazione. Sicché
non deve sembrare strano che per questo motivo, in apparenza ed in altro
ambiente non abbastanza grave, i Vitale e consoci abbiano determinato,
come fecero, di uccidere.(3)
L’acqua è una risorsa essenziale per
la coltivazione degli agrumi che negli anni successivi alla creazione
dello Stato unitario vengono esportati sul mercato nazionale e
internazionale, in particolare negli Stati Uniti, principale meta di
emigrazione dopo la sconfitta della prima ondata del movimento contadino
(i Fasci siciliani). Il controllo dell’acqua e del mercato agrumicolo
è nelle mani di gruppi mafiosi che avviano i primi rapporti con gli
emigrati in America, tra cui ci sono i fondatori dell’organizzazione
mafiosa d’oltre Oceano.
Il controllo mafioso dell’acqua
continuerà anche dopo e i mafiosi non esiteranno a ricorrere
all’omicidio se esso verrà messo in forse. Nel 1945, a Ficarazzi, nei
pressi di Palermo, al centro della pianura coltivata ad agrumi, viene
ucciso Agostino D’Alessandro, segretario della Camera del lavoro, che
aveva cominciato una lotta contro la mafia dell’acqua. Era stato
“invitato” a desistere ma aveva continuato la sua battaglia,
all’interno della mobilitazione dei contadini che raccoglierà
centinaia di migliaia di persone impegnate nella lotta per la riforma
agraria e per la democrazia, scontrandosi duramente con la mafia.(4)
I mafiosi fanno sentire tutto il peso del
loro potere all’interno dei consorzi di irrigazione di nuova
istituzione. L’esempio più noto è il consorzio dell’Alto e Medio
Belice. Il consorzio istituto nel 1933, in pieno periodo fascista,
abbracciava un comprensorio di circa 106.000 ettari ed era stato
costituito per la realizzazione di una diga sul fiume Belice. Esso
rimase inattivo fino al 1944, per l’opposizione della mafia, che
temeva «che lo sviluppo dell’iniziativa poteva toglierle il monopolio
dell’acqua e sovvertire l’ordine delle cose (campierato ed usura)
fino ad allora sotto il suo diretto controllo». (5)
L’unica attività che il consorzio
riesce a realizzare è la costruzione di strade che non è ostacolata
dai mafiosi che organizzano la raccolta e la fornitura di pietre alle
imprese di costruzione. Tra questi mafiosi c’è il giovane Luciano
Liggio che costituisce una società di autotrasporti e non è contrario
all’attività del consorzio intuendo che esso può offrire grandi
opportunità. Infatti la costruzione di dighe sarà un ottimo affare per
i mafiosi che sanno inserirsi accaparrandosi buona parte degli
stanziamenti pubblici. Esemplare la vicenda della costruzione della diga
Garcia sul Belice, chiesta a gran voce dai contadini e ottenuta dopo
anni di lotte. Il capomafia Peppino Garda compra i terreni, ottiene
finanziamenti per migliorare le coltivazioni e infine li rivende, a un
prezzo di gran lunga superiore a quello d’acquisto, agli enti pubblici
interessati alla costruzione della diga. Una speculazione studiata a
tavolino pienamente riuscita grazie alle complicità delle istituzioni.
La sete di Palermo
La grande “sete di Palermo” del
1977-78 fu l’occasione per l’apertura di un’inchiesta sulle fonti
di approvvigionamento idrico nell’agro palermitano. Tra le poche fonti
informative esistenti c’era la Carta delle irrigazioni siciliane
redatta nel 1940 dalla sezione di Palermo del Servizio idrografico del
Ministero dei lavori pubblici, da cui risultava «un aggrovigliarsi di
usi di acque delle più diverse provenienze» e individuava 114 sorgenti
e 600 pozzi che prelevavano l’acqua dalla pingue falda freatica. Un
documento più recente, del 1973, redatto dall’Ente sviluppo agricolo
(Esa) rilevava l’esistenza di 1.469 pozzi che attingevano alla falda
freatica nella fascia costiera.
Queste acque sotterranee per la grande
rilevanza che avevano per il soddisfacimento del fabbisogno idrico della
città e delle campagne avrebbero dovuto essere inserite nell’elenco
delle acque pubbliche, invece vengono lasciate sfruttare dai privati e
in prima fila sono i più noti rappresentanti dell’associazione
mafiosa. A dire del magistrato che condusse l’inchiesta, il pretore
Giuseppe Di Lello, il criterio nella redazione degli elenchi delle acque
pubbliche è il “rispetto” delle acque private. Nel Prga (Piano
regolatore generale degli acquedotti) redatto dal Ministero dei lavori
pubblici e approvato nel 1968 figuravano solo 13 pozzi, di cui due
salini e quattro in via di esaurimento per impoverimento della falda,
mentre non c’era traccia dei pozzi ricchissimi d’acqua gestiti dai
Greco di Ciaculli, una delle dinastie mafiose più note, e da altre
famiglie mafiose: i Buffa, i Motisi, i Marcenò, i Teresi.
Ovviamente la falda freatica andava
impoverendosi per il vero e proprio saccheggio perpetrato dai privati e
in particolari dai mafiosi e in molti pozzi era già in stato avanzato
l’intrusione di acqua marina che ne rendeva impossibile l’uso.
L’acqua dovrebbe essere un bene pubblico, invece l’Azienda
municipale acquedotto di Palermo (Amap) prende in affitto i pozzi dei
privati e negli anni ’70 il Comune di Palermo paga quella che dovrebbe
essere la sua acqua circa 800 milioni l’anno. Particolare
significativo: i privati per scavare i pozzi si servono dei mezzi
dell’Esa, cioè di un ente pubblico, e con modica spesa realizzano
affari consistenti. L’Amap, alla ricerca di nuove acque, trivella le
zone povere d’acqua, lasciando le zone più ricche al monopolio dei
privati.
Le responsabilità di tale situazione
sono state chiaramente individuate, ai vari livelli: dal Ministero dei
lavori pubblici all’Assessorato regionale, al Provveditorato per le
opere pubbliche, all’Ufficio del Genio civile e, ovviamente, all’Amap.
Alcuni fatti costituivano reato e gli atti vennero inviati alla Procura
della Repubblica ma l’inchiesta non ebbe seguito.
Un’altra inchiesta condotta nel 1988 si
concludeva con il rinvio a giudizio di vari mafiosi, di proprietari di
pozzi e di alcuni tecnici, ma il processo si concluse con una serie di
assoluzioni.
Le mani sulle opere pubbliche
In media ogni anno piovono in Sicilia 7
miliardi di metri cubi d’acqua, quasi il triplo del fabbisogno
calcolato in 2 miliardi e 482 milioni di metri cubi (1 miliardo e 325
milioni per l’irrigazione dei campi, 727 milioni per dissetare i
centri abitati, 430 milioni per il fabbisogno industriale). Eppure la
Sicilia soffre la sete, e in alcune zone, per esempio nelle province di
Agrigento, Caltanissetta, ed Enna, è emergenza permanente.
Ci sono dighe che da vent’anni
attendono di essere completate, o non sono state collaudate e possono
contenere solo una parte della capienza. Ci sono le condotte colabrodo
(si parla di perdite del 50 per cento). Questo non è solo il frutto del
controllo mafioso sull’acqua ma più in generale di una politica delle
opere pubbliche all’insegna dello spreco e del clientelismo. L’opera
pubblica, a prescindere dai miglioramenti che può arrecare alle
condizioni di vita della popolazione di un determinato territorio, viene
utilizzata come occasione di speculazione e di accaparramento del denaro
pubblico. Perciò i lavori devono durare pressoché all’infinito e il
risultato finale non conta. Attorno all’opera pubblica si forma un
grappolo di interessi che coinvolge imprenditori, amministratori,
politici, mafiosi che controllano la spartizione degli appalti,
praticano i pizzi sulle imprese, forniscono loro materiali e servizi, o
sono impegnati direttamente nell’attività imprenditoriale.
Questo groviglio di interessi è alla
base di quel che ancora oggi accade in Sicilia. Nessuna delle dighe
esistenti è autorizzata ad essere riempita completamente. Qualche caso,
tra i più eclatanti. La diga Ancipa potrebbe raccogliere 34 milioni di
metri cubi d’acqua, ne raccoglie solo 4 milioni. La diga presenta
delle crepe, segnalate da più di trent’anni. La diga Disueri potrebbe
contenere 23 milioni di metri cubi, ma deve fermarsi a 2 milioni e
mezzo. La diga Furore, in provincia di Agrigento, completata nel 1992,
non è mai entrata in funzione. Per altre dighe mancano gli
allacciamenti. Spesso si dice che mancano i soldi, ma in più di un caso
i soldi ci sono e non si spendono per inerzia delle amministrazioni che
continuano a favorire l’approvvigionamento da parte di privati.
Lo scorso mese di febbraio oltre sette
milioni di metri cubi rischiavano di finire in mare, perché le dighe
non erano in grado di contenere l’acqua caduta con le abbondanti
piogge. In Sicilia si fanno processioni e cerimonie religiose per
invocare la pioggia, ma quando c’è la pioggia bisogna svuotare le
dighe. E questo non è solo mafia. E va ribadito che la mafia ha potuto
operare, nel settore dell’acqua come in altri settori, perché ha
goduto di un contesto favorevole e di complicità, omissive o attive,
diffuse.
Data la frammentazione della gestione,
spesso riesce difficile individuare le responsabilità. In Sicilia si
dovrebbero occupare di acqua 3 enti regionali, 3 aziende
municipalizzate, 2 società miste, 19 società private, 11 consorzi di
bonifica, 284 gestioni comunali, 400 consorzi fra utenti e altri 13
consorzi.
All’ennesima emergenza idrica, si è
pensato di risolvere il problema nominando commissario il presidente
della Regione. Per il 2000 un’ordinanza di protezione civile stanziava
54 miliardi per opere urgenti da realizzare nel giro di nove mesi e
disponeva poteri di approvazione rapida dei progetti per il presidente
della Regione, ma le inadempienze della Regione hanno indotto il
ministro dei lavori pubblici a nominare, nel febbraio del 2001, un
commissario dello Stato, il generale dei carabinieri Roberto Jucci. Il
commissario si è dato da fare andando in giro per l’isola, redigendo
una mappa degli invasi e ha proposto l’istituzione di un’Authority,
cioè di un organo unico che sovrintenda a tutta la questione
dell’acqua in Sicilia, gestendo unitariamente le dighe, il sistema
idrogeologico, le condotte di adduzione, gli impianti comunali. La
proposta era stata già fatta dalla giunta regionale nel 1990 ma non si
è mai realizzata. Pare che adesso qualcosa si smuova ma tra il
commissario, nominato dal governo nazionale di centro-sinistra, e la
giunta regionale nata dalla schiacciante vittoria del centro-destra alle
elezioni del 24 giugno sono sorti problemi che rischiano di riportare la
situazione al punto di prima.
Le multinazionali dell’acqua
L’esempio della Sicilia non è un caso
isolato e irripetibile. Se negli ultimi anni a livello nazionale e
mondiale sono sorti o si sono rafforzati gruppi criminali di tipo
mafioso, cioè che hanno la complessità della mafia siciliana, sul
problema dell’acqua, come accennavamo all’inizio, si sono imposte
politiche di privatizzazione dovute all’emergere di grandi gruppi
imprenditoriali.
I “giganti dell’acqua” sono
soprattutto due imprese francesi: la Vivendi, ex Générale des Eaux, e
la Ondeo, ex Lyonnaise des Eaux. Vivendi è il più importante operatore
nel settore dell’acqua ma opera anche in altri settori: ambiente,
energia, nettezza urbana, trasporti, telecomunicazioni (ha acquistato
recentemente l’americana Universal Picture e Canal +). Ha un fatturato
annuo di più di 150 miliardi di franchi francesi e impiega più di
140.000 persone.
La Ondeo mira a scalzare la consorella
francese e ha un ruolo internazionale di tutto rispetto: è già
presente in circa 20 paesi e nel 1997 gestiva il servizi idrico in 14
grandi città, tra cui Manila, Budapest, Cordoba, Casablanca, Giacarta,
La Paz, Postdam, Indianapolis.
In Gran Bretagna la privatizzazione
dell’acqua è stata introdotta nel 1989 e le grandi imprese
britanniche, in particolare la Seven-Trent e la Thames Water, operano
anch’esse a livello internazionale. Il colosso elettrico tedesco, la
RWE, opera come impresa multisettoriale e ha interessi anche nel settore
dell’acqua. In Italia, in seguito alla legge Galli, aziende come la
romana Acea, la milanese Aem e la torinese Amt si sono estese sul
territorio nazionale e in altri paesi.
In Francia, dove la privatizzazione si
configura come delega della gestione di un servizio pubblico a
un’impresa privata, si è avuto un aumento medio del prezzo
dell’acqua del 50%, a Parigi del 154%; gli utili delle imprese sono
lievitati al 60-70% degli utili totali. Si aggiunga la scarsa
trasparenza delle concessioni con il relativo incremento delle occasioni
di corruzione.
Nel Regno Unito la privatizzazione
prevede l’esproprio di un bene comune e le imprese hanno fatto
registrare utili esorbitanti, per cui si è escogitata una tassa
straordinaria.(6)
In altri paesi i costi dell’acqua sono diminuiti per i ricchi e
aumentati per i poveri: è il caso di Manila, capitale delle Filippine.(7)
Questa invasione delle grandi imprese
renderà sempre più difficile una politica pubblica delle risorse
idriche e imporrà sempre di più un modello fondato sulla
“petrolizzazione dell’acqua”, cioè sulla dittatura del mercato
anche sull’acqua. In questi ultimi anni si è parlato tanto di “fine
delle ideologie” ma in realtà abbiamo assistito al trionfo del
liberismo che è anch’esso un’ideologia. Sostenere che il mercato è
il migliore, se non l’unico, meccanismo di regolazione, è una tesi
ideologica che semplifica la complessità del reale riducendo tutto alla
dimensione economica. L’acqua non è un bene di cui si possa fare a
meno, che si può scegliere di consumare o meno, ma un bene comune
indispensabile per vivere. Tutto questo viene ignorato e come si è
fatto per il petrolio, che è servito per arricchire le grandi
multinazionali e gli sceicchi, lasciando in miseria gran parte della
popolazione dei paesi produttori, così ora si vuole fare pure per
l’acqua.
Il Manifesto dell’acqua
Nel 1998 a Lisbona Organizzazioni non
governative e altri soggetti hanno lanciato il “Manifesto
dell’acqua”.
Gli attori sociali che debbono impegnarsi
su questi obiettivi debbono essere i parlamenti, le associazioni della
società civile, gli scienziati, gli intellettuali e i media, i
sindacati. Si propone la costituzione di un collettivo mondiale “Acqua
per l’Umanità” e già nel 1998 si è costituito un comitato
promotore.(8)
L’Italia non è stata fra i paesi più
attivi per una politica mondiale dell’acqua, comunque anche nel nostro
paese si è costituito un Comitato per il contratto mondiale
dell’acqua e si è lanciato un Manifesto italiano.
Anche in Sicilia si cerca di riprendere
una battaglia che fu del movimento contadino sulla base di alcuni
principi che si richiamano al Manifesto dell’acqua: opporsi alla
privatizzazione e dichiarare tutto il patrimonio acquedottistico demanio
pubblico inalienabile, creare un’unica grande struttura pubblica
regionale e promuovere politiche di autogoverno del territori.(9)
Tutto ciò richiede la massima vigilanza nei confronti di qualsiasi
ingerenza dei gruppi mafiosi interessati a perpetuare il loro controllo
e forti del fatto che il modello di uso privatistico di una risorsa
pubblica in questi anni invece di regredire ha fatto passi da gigante